Il Palazzo di Giustizia di S. Maria C. Vetere

mercoledì 11 aprile 2012

La presupposizione nel diritto civile - sentenza

In tema di rapporti giuridici sorti da contratto, la cosiddetta "presupposizione" deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di "condizione", da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa "causa" del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'art. 1467 c.c. (Nella specie, era stata esperita, dai proprietari del canale di carico di un mulino, domanda di pagamento dei relativi canoni nei confronti dell'affittuario consorzio di bonifica e avevano rigettato la domanda sia il primo che il secondo giudice, quest'ultimo, in particolare, avendo applicato l'art. 1463 c.c. sul presupposto che il consorzio doveva ritenersi liberato dalla propria prestazione perché, a causa dell'erosione del letto del fiume, si era creato un dislivello tale, rispetto alla originaria imboccatura del canale, da rendere questo non più adatto a captare l'acqua dal fiume; la S.C. ha confermato la sentenza correggendone la motivazione sulla base dell'enunciato principio di diritto, in quanto la situazione di fatto "presupposta" dai contraenti nella formazione del loro consenso, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, doveva identificarsi nella possibilità materiale di immissione dell'acqua derivata dal consorzio nel canale di carico del mulino, possibilità venuta meno già da tempo per effetto dell'erosione del letto del fiume). (Cassazione civile sez. III 24 marzo 2006 n. 6631)

Cassazione: chiedere un sequestro per un diritto verosimilmente prescritto comporta responsabilità aggravata

Chiedere un sequestro conservativo per un diritto verosimilmente prescritto comporta una condanna per responsabilità processuale aggravata. E'quanto afferma la corte di cassazione (seconda sezione civile sentenza n. 4443/2012) che si è occupata di una vicenda in cui è stato richiesto di accertare la responsabilità aggravata ex articolo 96 del codice di procedura civile in capo a dei condomini che avevano chiesto il sequestro conservativo ai danni di un costruttore per tutelare un presunto diritto di credito dovuto ad asseriti vizi costruttivi. La Suprema Corte, rilevando che il diritto risultava verosimilmente prescritto, ha ritenuto che vi fosse una grave negligenza nell'aver chiesto la misura cautelare. La vicenda ha avuto origine dal ricorso presentato dai condomini di alcuni edifici con cui si chiedeva l'autorizzazione ad un sequestro conservativo fino alla concorrenza di euro 400.000,00 nei confronti della ditta costruttrice per tutelare un presunto diritto di credito che a loro dire sarebbe nato da difetti di ricostruzione sugli immobili condominiali. Il ricorso veniva però rigettato con condanna al pagamento di una somma di Euro 3.500 a titolo di responsabilità aggravata. I condomini proponevano reclamo ottenendo una parziale modifica del provvedimento: veniva esclusa la condanna per responsabilità aggravata e per il resto veniva confermato il provvedimento impugnato con l'integrale compensazione delle spese relative alla fase di reclamo. Il caso finiva poi in cassazione La corte ha fatto notare come l'insussistenza dei presupposti dell'invocata misura cautelare a tutela di un credito, riconducibile all'articolo 1669 del codice civile, ed in particolare del "fumus" della pretesa, essendo verosimilmente fondata l'eccepita prescrizione, rende legittima la condanna dei reclamanti per responsabilità aggravata in quanto "conseguente alla loro soccombenza in ordine al provvedimento cautelare richiesto, essendo stata sottolineata la grave negligenza dei predetti Condominii nell'aver introdotto una istanza di autorizzazione al sequestro conservativo fino alla concorrenza della somma di euro 400.000,00 a cautela di un diritto verosimilmente prescritto".

Cassazione: chiedere un sequestro per un diritto verosimilmente prescritto comporta responsabilità aggravata

Chiedere un sequestro conservativo per un diritto verosimilmente prescritto comporta una condanna per responsabilità processuale aggravata. E'quanto afferma la corte di cassazione (seconda sezione civile sentenza n. 4443/2012) che si è occupata di una vicenda in cui è stato richiesto di accertare la responsabilità aggravata ex articolo 96 del codice di procedura civile in capo a dei condomini che avevano chiesto il sequestro conservativo ai danni di un costruttore per tutelare un presunto diritto di credito dovuto ad asseriti vizi costruttivi. La Suprema Corte, rilevando che il diritto risultava verosimilmente prescritto, ha ritenuto che vi fosse una grave negligenza nell'aver chiesto la misura cautelare. La vicenda ha avuto origine dal ricorso presentato dai condomini di alcuni edifici con cui si chiedeva l'autorizzazione ad un sequestro conservativo fino alla concorrenza di euro 400.000,00 nei confronti della ditta costruttrice per tutelare un presunto diritto di credito che a loro dire sarebbe nato da difetti di ricostruzione sugli immobili condominiali. Il ricorso veniva però rigettato con condanna al pagamento di una somma di Euro 3.500 a titolo di responsabilità aggravata. I condomini proponevano reclamo ottenendo una parziale modifica del provvedimento: veniva esclusa la condanna per responsabilità aggravata e per il resto veniva confermato il provvedimento impugnato con l'integrale compensazione delle spese relative alla fase di reclamo. Il caso finiva poi in cassazione La corte ha fatto notare come l'insussistenza dei presupposti dell'invocata misura cautelare a tutela di un credito, riconducibile all'articolo 1669 del codice civile, ed in particolare del "fumus" della pretesa, essendo verosimilmente fondata l'eccepita prescrizione, rende legittima la condanna dei reclamanti per responsabilità aggravata in quanto "conseguente alla loro soccombenza in ordine al provvedimento cautelare richiesto, essendo stata sottolineata la grave negligenza dei predetti Condominii nell'aver introdotto una istanza di autorizzazione al sequestro conservativo fino alla concorrenza della somma di euro 400.000,00 a cautela di un diritto verosimilmente prescritto".

Cassazione: mancata valutazione dei rischi? I contratti a termine diventano a tempo indeterminato

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5241 del 2 aprile 2012, ha affermato che "La clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni (NDR: attualmente il dlgs 626/1994 è stato sostituito dal "Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi lavoro" D.lgs 81/2008), è nulla per contrarietà a norma imperativa e il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato". In particolare la Suprema Corte, accogliendo il ricorso di un lavoratore a tempo determinato che contestava l'assenza della valutazione dei rischi e chiedeva l'assunzione a tempo indeterminato, ha precisato che - alla luce dell'art. 3 del D.Lgs n. 368 del 2011 (che introduce una serie di divieti all'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato) -, "la valutazione dei rischi assurge a presupposto di legittimità del contratto, trovando la ratio legis nella più intensa protezione dei rapporti di lavoro sorti mediante l'utilizzo di contratti atipici, flessibili e a termine, ove incidono aspetti peculiari quali la minor familiarità del lavoratore e della lavoratrice sia con l'ambiente di lavoro sia con gli strumenti di lavoro a cagione della minore esperienza e della minore formazione, unite alla minore professionalità e ad un'attenuata motivazione". L'ordinamento esprime il proprio disvalore verso l'inosservanza degli adempimenti in tema di sicurezza dei luoghi di lavoro vietando al datore di lavoro, che la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori non abbia effettuato, di stipulare il contratto di lavoro a termine con la conseguenza che il termine eventualmente apposto risulta nullo per contrarietà ad una norma imperativa. Tale nullità comporta la nullità dell'opzione contrattuale relativa all'ipotesi derogatoria (contratto di lavoro a termine) e la validità, invece, del contratto di lavoro secondo la regola generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Quanto alle conseguenze della conversione, i giudici di legittimità, affermano l'applicabilità delle norme del cd. collegato lavoro (L. 183/2010). Ne consegue, pertanto, la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore del lavoratore di una somma compresa fra le 2,5 e le 12 mensilità a titolo di indennità omnicomprensiva come una sorta di penale stabilita dalla legge - in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro - a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall'esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore, sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto.

Corte Costituzionale decorrenza della prescrizione per la ripetizione degli interessi anatocistici

Con l'attesa sentenza n.78 pubblicata il 05 aprile 2012, la Corte Costituzionale ha sciolto il nodo relativo alla illegittimità costituzionale dell'art.2 comma 61 del decreto legge n.225 del 29.12.2010 coordinato con le modifiche apportate con la legge di conversione n.10 del 26.2.2011. Tenendo conto delle censure mosse alla norma dai diversi Tribunali remittenti e considerate le difese svolte dagli Istituti di credito coinvolti nelle singole vicende processuali, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di entrambi i periodi di cui si compone l'art.2 comma 61 della legge di conversione del cosiddetto decreto mille proroghe.

Dopo aver esaminato i contrapposti orientamenti giurisprudenziali relativi alla decorrenza del termine di prescrizione decennale della ripetizione dell'indebito per interessi anatocistici, la Corte si è soffermata sulla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.24418 del 2011 che, come abbiamo avuto modo di osservare, ribadisce che il contratto di conto corrente bancario determina l'instaurazione di un rapporto unitario e, dunque, il termine decennale di prescrizione per la ripetizione dell'indebito decorre dalla sua chiusura. Tuttavia, la citata sentenza precisa che è fatto salvo il caso dei versamenti in conto corrente che hanno carattere solutorio cioè che costituiscono un pagamento, per la cui ripetizione, invece, è necessario agire in giudizio entro dieci anni a partire dalla loro annotazione.

Secondo la Corte Costituzionale, le Sezioni Unite della Cassazione hanno fornito un' interpretazione dell'art.2935 c.c. che non lascia spazio ad ulteriori dubbi. Pertanto, la norma dell'art.2 comma 61 della legge n.10 del 2011 che si auto qualifica di interpretazione dell'art.2935 c.c. e ha efficacia retroattiva viola il canone generale della ragionevolezza posto dall'art.3 Cost. Infatti, essa è intervenuta sull'art.2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo. Né la soluzione fatta propria dal legislatore con la norma in esame può essere considerata una possibile variante di senso del testo dell'art.2935 c.c.. Essa, piuttosto, tende a derogare senza alcuna giustificazione alla disposizione codicistica. A ciò si aggiunga che l'efficacia retroattiva della deroga riduce irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di conto corrente bancario, pregiudicando la posizione dei correntisti che avevano già avviato azioni di ripetizione dell'indebito.

L'art.2 comma 61 della legge n.10 del 2011, quindi, è costituzionalmente illegittimo in quanto non rispetta i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza di cui all'art.3 Cost.

La Corte aggiunge che la norma in esame contrasta anche con l'art.6 CEDU. Tale disposizione assurge a parametro costituzionale in virtù del disposto dell'art.117 I comma Cost e sancisce il principio della preminenza del diritto e il concetto di equo processo. In virtù di tali principi il potere legislativo può ingerirsi nell'amministrazione della giustizia con norme retroattive che influenzano l'esito giudiziario di una controversia solo per motivi imperativi d'interesse generale. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte Costituzionale non ravvisa alcuno di tali motivi; pertanto l'art.2 comma 61 della legge n.10 del 2011 violi l'art.117 I comma Cost., in relazione all'art.6 CEDU.

L'illegittimità costituzionale del primo periodo della norma travolge anche il secondo periodo ove si legge "In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge".Infatti i due periodi sono strettamente connessi l'uno all'altro.

A questo punto, dunque, con riferimento ai conti correnti bancari troverà applicazione l'art.2935 c.c. nell'interpretazione resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n.24418 del 2010 e, ai fini della decorrenza del termine decennale di prescrizione della ripetizione dell'indebito, si dovrà distinguere i versamenti ripristinatori da quelli solutori. Per i primi, il termine decorrerà dalla chiusura del conto mentre solo per i secondi il termine decorrerà dall'annotazione. (da Dott.ssa Alfonsina Biscardi - www.tesiindiritto.com)

Compravendita immobiliare: Cassazione, in caso di intervento di più mediatori, tutti hanno diritto alla provvigione

In tema di mediazione (artt. 1754 c. c. e seg.), con sentenza n. 4228, depositata il 16 marzo 2012, la Corte di Cassazione ha ricordato che quando l'affare si è conscluso con l'intervento di più mediatori, congiunto o distinto, concordato o autonomo, in base allo stesso o più incarichi, ognuno dei mediatori ha diritto a una quota della provvigione. E' quanto emerge dal disposto dell'art. 1758 c.c.. Naturalmente, spiega la Corte occorre accertare l'efficacia causale dell'apporto di cuascun mediatore. Secondo la corte basta che ciascun mediatore sia sia giovato dell'apporto utile degli altri, limitandosi a integrarlo in modo da non potersi negare un nesso di concausalità tra i vari separati interventi e la conclusione dell'affare e sempre che si sia trattato in ogni caso dello stesso affare sotto il profilo oggettivo e soggettivo. Citando un precedente (la sentenza della stessa Cassazione del 18 marzo 2005, n. 5952) la Corte ha precisato che, in riferimento al caso di specie, "l'accertamento dell'efficacia causale dell'attività del singolo mediatore nella conclusione dell'affare è accertamento di fatto che non è sindacabile in sede di legittimità, quando sorretto da motivazione adeguata e non contraria e norma di legge". Confermando la decisione della Corte di Appello, la Suprema Corte ha quindi, rigettato il ricorso con cui una snc e due soci della stessa, avevano cercato di ribaltare il verdetto emesso in grado di appello. I giudici territoriali, rigettando l'appello principale e l'incidentale proposto dal titolare di una impresa immobiliare, avevano confermato la decisione del Tribunale di condanna a corrispondere l'indennità di provvigione per la compravendita di un capannone industriale

giudice non ammette CTU? La sentenza può essere censurata sotto il profilo dell'omessa o insufficiente motivazione

Quando il giudice, nonostante la richiesta della parte, non ha voluto nominare un consulente d'ufficio, la mancata nomina può essere censurata in Cassazione sotto il profilo della omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. È quanto afferma la sesta sezione civile della Corte (sentenza n. 5264/2012) facendo notare però che ciò è possibile solo nel caso in cui la consulenza sia l'unico possibile mezzo di accertamento di un fatto determinante per la decisione. Secondo i giudici di Piazza Cavour è anche necessario che sussistano i presupposti per disporre la consulenza tecnica d'ufficio e che l'esito dell'accertamento peritale sia idoneo ad incidere sulla risoluzione della controversia. Ricordiamo che la possibilità per il giudice di richiedere l'intervento di un esperto e disciplinata dall'articolo 61 del codice di procedura civile. In base a tale norma "quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica". In precedenza la stessa Cassazione (sez. lav. sentenza n. 9379/2010) aveva stabilito, richiaamando a sua volta altri precedenti giurisprudenziali, che "il giudizio sulla necessità o utilità di fare ricorso alla consulenza tecnica d'ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito e, se adeguatamente motivato in relazione al punto di merito da decidere, non può essere sindacato in sede di giudizio di legittimità; con la ulteriore precisazione che la motivazione, sia in ordine alla ammissione della consulenza che al diniego della stessa, può anche essere implicitamente desumibile dal complesso delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato, effettuate dal suddetto giudice". (da Studio Cataldi)